I veri nemici della
globalizzazione
Nella globalizzazione vi sono organizzazioni che dovrebbero regolare
e orientare nel senso di una crescente armonizzazione le economie del
mondo. Ma queste organizzazioni, come il Fondo Monetario o la Banca
Mondiale, spesso agiscono secondo logiche che non corrispondono agli
interessi del mondo, specialmente della sua parte più povera.
Stiglitz, che conosce bene i meccanismi degli organismi finanziari mondiali
per avere ricoperto in essi incarichi di primo piano, conduce una serrata
analisi da cui si può giungere ad identificare chi siano veramente,
al di là delle apparenze, i nemici della apertura delle economie
e dello sviluppo mondiale. [clicca qui per continuare]
Della globalizzazione si fa un gran parlare, ma ancora troppo di rado
l’opinione pubblica è messa nelle condizioni di avere un’idea
precisa dei problemi ad essa connessi. Testimonianza preziosa è
allora quella offerta da Joseph Stiglitz, nel suo libro pubblicato in
Italia con il titolo “La globalizzazione e i suoi oppositori”,
dal quale si evince sorprendentemente che gli oppositori veri della
globalizzazione non sono - come si potrebbe a prima vista supporre -
i cosiddetti “No Global”, ma proprio coloro, o almeno parte
di essi, che dovrebbero promuoverla e se ne dichiarano i più
convinti sostenitori.
Quella offerta da Stiglitz - premio Nobel per l’economia nell’anno
2001, professore di economia alla Columbia University, consigliere presidenziale
durante l’amministrazione Clinton, vice presidente della Banca
Mondiale - è una testimonianza eccezionale sulla globalizzazione
perché viene da un uomo che conosce i meccanismi della finanza
internazionale, che è stato, ed ancora sta, sul ponte di comando
dell’economia mondiale.
Il suo approccio non è ideologico, ma fortemente pragmatico.
Egli sa che i comportamenti umani sono difficilmente semplificabili
al punto di farli stare entro schemi univoci e rigidi. Sa che spesso
chi fa cose che avranno su altri conseguenze nefaste non se ne rende
conto, in un certo senso per lo più è “in buona
fede”. Egli non vede nessun disegno diabolico dietro alle aberrazioni
che denuncia. La realtà delle cose è più complessa.
I disastri provocati troppo spesso dalla politica condotta dalle istituzioni
economiche mondiali non avvengono - egli ne è convinto - per
una esplicita volontà di affamare i poveri del mondo, come peraltro
alcuni, specie nel Terzo Mondo, sono portati a credere, ma per una somma
di negatività, un miscuglio di arroganza ideologica, di superficialità,
di pigrizia intellettuale e di miope egoismo della élite della
finanza internazionale, che vede il mondo in funzione del suo ombelico.
E’ chiaro però - pare di poter aggiungere - che al di sotto
di queste “carenze” o “disattenzioni” ci sono
interessi potenti, che se anche non si coagulano in esplicite strategie
di complicità, agiscono e si impongono di concerto. Ogni interesse
particolare tende a collocare se stesso in uno scenario generale che
lo giustifica. Nessuno ama di apparire egoista. L’interesse particolare,
si potrebbe dire, non parla direttamente, ma per interposto, supposto,
“interesse generale” fabbricato a suo uso.
Il fatto è che la gestione delle istituzioni economiche internazionali
ha imposto negli ultimi anni dolori e miserie a intere popolazioni,
che non sarebbe stato difficile evitare se loro scelte fossero state
diverse o almeno più prudenti. Gli effetti negativi di queste
politiche sono state limitati o evitati là dove ci sono stati
governi autonomi e abbastanza forti da condurre politiche economiche
indipendenti, misurate sulle esigenze effettive dei rispettivi paesi
e non soggette all’astratta ideologia neoliberista imposta a volte
contro ogni buon senso dagli organismi di governo dell’economia
mondiale.
L’autore è un convinto sostenitore delle opportunità
che la globalizzazione guidata da un governo equilibrato e lungimirante
dell’economia mondiale potrebbe offrire ai paesi e alle popolazioni,
e si tratta di miliardi di persone, che oggi vivono nell’indigenza
se non nella miseria più assoluta. Ritiene però che queste
opportunità vengano in gran parte vanificate dalle istituzioni
internazionali e dai paesi più ricchi che le controllano.
Quello di Stiglitz è uno degli atti di accusa più lucidi
ed efficaci che siano mai stati scritti, supportati da puntuali supporti
fattuali, contro quelle istituzioni, in particolare il Fondo Monetario
Internazionale, la Banca Mondiale, il WTO che avrebbero come compito
istituzionale di mantenere la stabilità economica e promuovere
lo sviluppo.
La tesi è che queste istituzioni, lungi dallo svolgere il compito
istituzionale per il quale sono nate, garantire la stabilità
economica e lo sviluppo mondiale, abbiano troppo spesso operato in senso
contrario. Il mercato - sottolinea Stiglitz in polemica con i fondamentalisti
del neoliberismo - non è perfetto, come già Keynes negli
anni trenta, durante la Grande Depressione, aveva compreso. Non corregge
quasi mai rapidamente ed efficacemente in modo spontaneo le sue storture,
né nel breve periodo, né le medio periodo. E “nel
lungo periodo - ricorda l’autore citando un famoso detto di Keynes
- saremo tutti morti”.
Già Adam Smith, uno degli autori che hanno posto le basi dell’economia
politica, che pure aveva formulato il concetto di “mano invisibile”
del mercato, sapeva, a differenza degli epigoni dell’integralismo
liberista, che questa “mano”, da sola, non mette d’incanto
le cose a posto.
Il mercato sarebbe perfetto in una condizione in cui anche tutte le
condizioni in cui esso si attua fossero perfette. In particolare ciò
che è necessario affinché il mercato funzioni è
che ci sia un buon sistema - veramente pluralista - di informazione,
che renda più difficile che qualcuno si avvantaggi indebitamente
disponendo di notizie di cui gli altri non dispongono; una legislazione
adeguata a garantire la chiarezza e la certezza dei rapporti economici
e un ordine giudiziario in grado di farla rispettare in vera autonomia;
un governo stabile, capace di evitare che le tensioni sociali superino
certi livelli. La teoria economica afferma che, perché vi sia
un mercato efficiente in un paese, tutte queste condizioni devono essere
soddisfatte.
Ma è proprio questo presupposto che non esiste nella quasi totalità
dei paesi in via di sviluppo, o anche in quelli che hanno abbandonato
il sistema dell’economia pianificata (socialista). La introduzione
di riforme in un settore - osserva Stiglitz - non accompagnate da riforme
in tutti gli altri che in qualche modo devono garantirne sia pure indirettamente
il successo, può peggiorare, invece che migliorare la situazione.
Ma l’ideologismo delle istituzioni internazionali ha teso quasi
sempre ad affermare la liberalizzazione dei mercati e delle merci come
soluzione valida in principio, di per sé, sempre e comunque.
A prescindere cioè dall’esame concreto delle situazioni
dei diversi paesi.
Per la scuola di pensiero economico e politico, che ha dominato il pensiero
occidentale negli ultimi vent’anni, che si ispira a Milton Friedman,
e che ha avuto i suoi principali sostenitori politici in Ronald Reagan
e Margareth Tatcher, il problema, per esempio, della disoccupazione
non esiste. Come ogni merce il lavoro deve adeguarsi alla legge della
domanda e dell’offerta: se c’è disoccupazione vuol
dire che c’è troppa offerta di lavoro rispetto alla domanda.
Perciò i salari devono diminuire, così la disoccupazione
sarà assorbita. Se ciò non accade è perché
i sindacati o altri elementi “perturbatori” extraeconomici
del mercato lo impediscono. Si tratta dunque di abbattere ogni vincolo
alla libera circolazione e contrattazione di mercato, di tutto, anche
del lavoro.
Per la stessa impostazione liberista vale il principio del cosiddetto
“trickle down” che letteralmente vuol dire “cola giù”.
Il principio in poche parole si può così riassumere: lascia
che i ricchi diventino più ricchi, dalla loro ricchezza qualcosa
colerà giù anche per gli altri.
Ma nella realtà, dati alla mano, si può dimostrare che
non è così. La liberalizzazione totale della domanda e
dell’offerta del lavoro negli Stati Uniti ha portato milioni di
persone, che pure hanno un posto di lavoro, sotto la soglia di povertà.
Lavorano, ma il loro salario non gli basta per vivere.
Il trikle down spesso o quasi sempre funziona alla rovescia: i ricchi
diventano più ricchi, i poveri più poveri. Quella che
viene ridimensionata, erosa fino all’estinzione, è la classe
media, che come sempre è stato rilevato dai teorici della politica,
è il principale fattore della stabilità di un paese.
Se questa politica ha creato grandi scompensi nei paesi avanzati, tanto
più ha effetti devastanti in quelli in via di sviluppo, le cui
strutture sociali sono di molto più fragili. Negli ultimi anni
novanta il sistema economico mondiale ha dovuto affrontare una crisi
che per le sue proporzioni ha come precedenti solo quella del 1929,
da cui sortì la Grande Depressione che si prolungò per
tutti gli anni trenta fino alla seconda guerra mondiale.
Nel 1997 un paese come la Tailandia entra in crisi perché le
sue risorse finanziarie sono state usate nella speculazione edilizia,
e la bolla dei prezzi ad essa relativa ad un certo punto è scoppiata.
Il sistema finanziario di quel paese, che si era precedentemente molto
indebitato con l’estero, si trova a disporre di un patrimonio
edilizio che si è rapidamente svalutato. Ma questo mette in difficoltà
il suo sistema finanziario. La Tailandia ricorre all’FMI. La ricetta
di questo è: alzare i tassi di interesse, tagliare la spesa pubblica,
liberalizzare il mercato finanziario, cioè aprire le porte al
capitale straniero, privatizzare le attività pubbliche.
L’aumento dei tassi dovrebbe consentire di attirare capitali stranieri,
il taglio della spesa di mettere i conti pubblici in ordine, la apertura
dei mercati e la privatizzazione di rendere più efficienti la
produzione e i servizi.
Ma accade tutto il contrario: i tassi alti strangolano le imprese indebitate
e rendono difficile per le altre di disporre di capitali di investimento.
Inoltre, invece che attrarre risorse finanziarie straniere, i cambi
tenuti artificiosamente alti rendono più facile la fuga dei capitali
esteri già investiti nel paese e di quelli stessi nazionali in
cerca di più sicuri rifugi. Così gli speculatori sono
premiati. I tagli della spesa pubblica, insieme alla diminuzione delle
attività produttive e l’aumento conseguente della disoccupazione
riduce la domanda interna, che si ripercuote a sua volta negativamente
sull’occupazione. Il circolo vizioso è avviato.
La crisi della Tailandia si estende ben presto alla Corea del sud, che
ha goduto di circa un trentennio di sviluppo intenso, le cui imprese
però si sono troppo esposte sui mercati finanziari. La ricetta
dell’FMI è la stessa, gli effetti, fino a che la politica
suggerita dal Fondo viene seguita, i medesimi. La crisi si espande a
macchia d’olio in tutto l’est asiatico, coinvolgendo tutte
le cosiddette “tigri asiatiche”: l’Indonesia, la Malaysia,
ecc. Perché ciascun paese è mercato per l’altro
e dunque la diminuzione della domanda interna di uno si ripercuote sulla
produzione e sui livelli di occupazione dell’altro.
I paesi in via di sviluppo sono obbligati ad adottare la ricetta dell’FMI,
per avere i prestiti di cui hanno bisogno, cioè ad alzare i tassi,
tagliare la spesa pubblica, aprire i loro mercati finanziari e di beni
di consumo ai paesi più sviluppati. I quali però si guardano
bene dal fare altrettanto nei settori nei quali si potrebbe creare una
effettiva concorrenza, al loro interno, di prodotti agricoli o tessili
dei primi. Il principio del libero mercato vale perciò solo a
senso unico.
Il quadro dei risultati della politica del FMI è sotto gli occhi
di tutti. A partire dall’Africa, alla crisi dell’Est asiatico,
alla Russia e agli altri paesi dell’ex blocco sovietico, all’America
Latina si dimostra che ovunque i governi hanno applicato la ricetta
proposta (o imposta) dal Fondo Monetario Internazionale si sono create
le premesse per un aggravamento, talvolta drammatico o catastrofico,
della situazione economica e sociale che si sarebbe dovuto curare. Viceversa,
i paesi che hanno “resistito” ai suggerimenti del Washington
Consensus e hanno portato avanti una politica graduale di liberalizzazione,
come la Corea del Sud, la Cina, il Vietnam, o, in Europa, la Polonia,
hanno raggiunto risultati di risanamento significativi e, allo stesso
tempo, hanno salvaguardato il loro sistema produttivo e anche i loro
livelli di occupazione e di reddito.
Paesi che, come la Corea del sud, ma soprattutto la Cina e l’India,
hanno liberalizzato gradualmente, mano a mano che la loro industria
nazionale cresceva e si faceva più robusta, e il loro sistema
finanziario e il quadro delle leggi relativamente si adeguava alle esigenze
di un mercato più trasparente. Così hanno avuto più
di un ventennio di relativa stabilità e alti, se non altissimi,
tassi di sviluppo. Gli “allievi modello” del FMI, come la
Tailandia o l’Indonesia hanno avuto esperienze molto negative.
Il chiodo fisso del FMI, osserva Stiglitz, è, per i paesi in
crisi, la tenuta dei tassi e la riduzione dell’inflazione. Questi
naturalmente, specialmente il secondo, sono obiettivi da perseguire,
ma non immediatamente e ad ogni costo. Nei parametri del Fondo non entrano
i livelli di occupazione, di reddito, di istruzione delle popolazioni,
né lo stato dell’ambiente.
A paesi già in difficoltà sono stati consigliati, o imposti,
aumenti del tasso di sconto vertiginosi. Se si considera con quanta
ansia i governi dei paesi occidentali attendono il taglio dei tassi
dai loro governatori centrali, o con quanto malcelato disappunto prendono
atto del loro aumento - e di solito si tratta di frazioni di punto -
ci si può rendere conto di che cosa significhi per un paese già
povero avere, da un giorno all’altro, il denaro di molto più
caro: devastazione economica, sociale, ambientale.
Solo le banche straniere e gli speculatori nazionali avranno vantaggi.
Disporranno di tutto il tempo per portare via i loro capitali, cambiandoli
per esempio in dollari ad un tasso, che in quanto è tenuto alto
artificiosamente, li garantisce dalle perdite. E’ ciò che
è avvenuto, per esempio, in Russia ed in Argentina. Si tratta
di casi veramente impressionanti.
La ingiustificata politica dei tassi alti, mantenuti ad ogni costo (l’Argentina,
per esempio, ha tenuto a lungo la parità della sua moneta con
il dollaro, cosicché tutta la borghesia ricca di quel paese ha
avuto il tempo di abbandonare la moneta nazionale e di convertire in
dollari, lasciando il paese in miseria assoluta) ha contribuito a generare
crisi terribili. Oggi l’Argentina, come si sa, pure essendo il
maggiore produttore mondiale di carne, uno dei maggiori produttori di
grano e ricco di molte risorse naturali, è un paese ridotto letteralmente
alla fame.
Lo smantellamento o la svendita del sistema produttivo nazionale, per
l’apertura immediata ai prodotti e ai capitali stranieri, l’ostinazione
a mantenere alti i tassi e abbattere ad ogni costo l’inflazione,
il taglio dei servizi e delle sovvenzioni ai meno abbienti hanno dei
costi sociali altissimi, che non sono recuperati facendo poi una manovra
di tipo opposto. Una volta chiusa una fabbrica, una volta disperso il
suo patrimonio di esperienza ed umano, non si può di punto in
bianco ricrearla. Anche se le condizioni finanziarie tornano ad essere
più favorevoli.
C’è un concetto che conviene segnalare alla base del ragionamento
di Stiglitz. Quello di “capitale sociale”. Il capitale sociale
è una risorsa preziosa che sta nel grado di coesione che una
società riesce ad esprimere, il rispetto comune delle regole,
la fiducia reciproca tra le persone, lo spirito di solidarietà.
Si tratta di un bene non solo morale, ma anche economico. Le società
disgregate difficilmente riescono a reagire efficacemente alle crisi,
difficilmente mantengono sistemi politici ed amministrativi non bacati
dalla corruzione e dall’inefficienza. Una volta disperso da una
politica economica dissennata questo bagaglio comune ci vorranno parecchi
anni, decenni e forse più per riaggregare un popolo.
E poi questo principio di libera concorrenza e di fiducia nel mercato
spesso non vale per quelli stessi che lo propugnano. I paesi più
avanzati pretendono che vengano liberalizzati i mercati dei prodotti
nei quali sono particolarmente forti, ma non in quelli nei quali potrebbero
subire la concorrenza dei paesi in via di sviluppo.
Anche quando, per esempio in Bolivia, si è proceduto con decisione
ad eliminare le coltivazione di coca, togliendo l’attività
più redditizia ai contadini di diverse parti di quel paese, non
ci si è curati affatto di dare loro la possibilità di
vendere i prodotti della loro agricoltura sui mercati dei paesi ricchi,
in particolare quello americano, in modo da alleviare le loro difficoltà,
create dall’abbandono delle colture illegali.
Ma il caso più eclatante, ed anche il più estremo e spaventoso,
è quello della Russia. Un paese che ancora alla fine degli anni
ottanta era un gigante industriale, sebbene con un apparato in larga
parte bolso e invecchiato oggi non produce praticamente nulla. I negozi
di Mosca e Pietroburgo sono pieni di merci di lusso, valigie di Vuitton,
oggetti da abbigliamento di Prada, Benetton, Gucci, ma non si trova
nulla con la sigla “Made in Russia”. Il paese vive precariamente
dell’esportazione di materie prime, in particolare di petrolio
e gas, pur avendo una popolazione dotata di alta scolarizzazione, avendo
mantenuto a lungo una posizione di primato nella ricerca scientifica
e tecnologica mondiale, essendo quello che per primo ha mandato nello
spazio un oggetto fabbricato dall’uomo.
In Russia la liberalizzazione senza gradualità del mercato dei
capitali e delle merci e la privatizzazione forzata dell’apparato
produttivo hanno avuto effetti talmente devastanti che nemmeno la peggiore
delle guerre, osserva Stiglitz, avrebbe avuto. Il PIL del paese in dieci
anni è diminuito del 60%. Interi settori industriali sono stati
smantellati o ceduti per un pezzo di pane, a personaggi senza scrupoli,
ammanigliati con il nuovo potere. In altri paesi dell’ex Unione
Sovietica la situazione è anche peggiore. Per contraccolpo, i
vecchi comunisti sono ritornati al potere, per esempio in Moldavia,
con le recenti elezioni, ottenendo il 70% dei voti. Anche in altri paesi,
come la Polonia, ex o postcomunisti sono tornati al potere, ad indicare
che le popolazioni, pur non contrarie alla liberalizzazione e all’ingresso
delle loro economie nel mercato globale, non sono disposte a subire
le devastazioni di un passaggio al mercato troppo repentino e non misuratolo
sulle reali esigenze nazionali.
In Russia la politica dei tassi alti sostenuta dall’FMI con prestiti
di miliardi di dollari ha generato la rovina dell’industria nazionale
e ha consentito che i nuovi oligarchi portassero all’estero i
frutti miliardari della loro rapina. La stessa politica, attuata verso
l’Argentina e il Brasile, ha dato risultati negativi quando non
catastrofici. Alla fine i paesi oggetto delle “cure”dell’FMI
si sono trovati impoveriti, privati delle risorse finanziarie nazionali,
con interi settori produttivi e dei servizi nelle mani degli stranieri,
e per di più indebitati fino al collo. Il loro “capitale
sociale” è stato dilapidato e non basterà una manovra
finanziaria giusta, a questo punto, a ricostituirli. Anche i “salvataggi”,
cioè i prestiti fatti ai paesi in difficoltà, non hanno
dato alcun beneficio ai destinatari, ma sono stati usati nella loro
quasi totalità per restituire i capitali che le banche occidentali
avevano precedentemente investito, prima di tutto al FMI stesso, che
pretende di avere la precedenza nel rientro dei suoi prestiti.
Se si valutano i comportamenti pratici delle organizzazioni internazionali
che dovrebbero regolare l’economia del mondo alla luce degli intenti
che esse ufficialmente dichiarano si ha l’impressione che esse
agiscano per lo più in modo incoerente e contraddittorio. Ma
se invece si valutano supponendo che esse perseguano altri fini rispetto
a quelli ufficialmente indicati, in primo luogo che tendano a favorire
gli interessi di Wall Streeet e del Tesoro americano, o comunque della
finanza internazionale, allora i comportamenti non appaiono più
strani ed inspiegabili, ma molto coerenti e determinati.
Ciononostante Stiglitz non pensa che ci sia una volontà politica
precisa ed esplicita alla base di tutto questo. Egli ritiene che ciò
avvenga per la contiguità culturale e psicologica che le istituzioni
economiche internazionali hanno con gli ambienti della finanza internazionale.
Queste istituzioni infatti subiscono l’influenza diretta dai maggiori
paesi occidentali, per il loro peso economico, ma anche perché
sono i loro uomini, i loro finanzieri ed economisti, ad alternarsi ai
vertici e a comporne gli apparati. Ma anche per una questione di “mentalità”.
I banchieri, per loro formazione sono portati a considerare preminenti
certi dati rispetto ad altri: più importante il tasso di inflazione
su quello di disoccupazione, l’ammontare del debito pubblico di
un paese rispetto ai livelli di occupazione o alla qualità dei
servizi sociali erogati, l’equilibrio della bilancia dei pagamenti
piuttosto che la legislazione ambientale.
Il mondo è complicato, ogni problema ha tante facce, ma ciascuno
tende a vedere e a perseguire il proprio “particulare”,
come direbbe Guicciardini.
I paesi in via di sviluppo o in transizione dall’economia pianificata
a quella di mercato spesso non possono contare su una presenza così
incisiva ed efficace negli organismi internazionali come sarebbe necessario
per difendere più efficacemente i loro interessi. Si tratta insomma,
di una sorta di “incomprensione” che i ricchi del mondo
manifestano nei confronti dei poveri, e non solo, aggiungiamo noi, nell’ambito
dei problemi economici, ma anche in quello culturale, sociale, religioso,
che rischia di spaccare il mondo in due, con una radicalizzazione delle
contraddizioni che avrebbe esiti catastrofici per tutti.
Il neoliberismo fondamentalista non si limita all’ambito economico,
ha gradualmente elaborato anche una sua dottrina geopolitica, specie
dopo l’11 settembre, che prevede la supremazia economico, politica
e militare sul mondo di un ristretto club di nazioni sotto la guida
degli USA, anche al di fuori dell’ONU. Pretende di esportare la
democrazia occidentale in tutto il mondo e di praticare, ove lo ritenga
opportuno, la guerra preventiva, usando sfacciatamente due pesi e due
misure, se, ad esempio, si tratta di far rispettare le risoluzioni dell’ONU
all’Iraq o a Israele. Ha recentemente sbandierato l’obiettivo
della liberazione delle donne afgane dalla schiavitù del burqa,
ma ancora oggi deve registrare il fatto che la maggior parte di esse,
pure essendo libere di non farlo, continuano a portarlo. Si sorprende
se un concorso di bellezza portato in un paese come la Nigeria provoca
200 morti.
Tornando a Stiglitz, egli non si limita all’analisi, cerca di
indicare anche dei provvedimenti di riforma che potrebbero portare dei
cambiamenti significativi. I suoi suggerimenti sono preziosi, e possono
entrare a far parte di una Carta delle richieste del movimento che si
batte per una diversa globalizzazione. Egli considera già di
per sé importante la mobilitazione che da Seattle, a Praga, a
Genova, ecc, ha imposto quanto meno all’attenzione degli organismi
internazionali problemi che prima in essi venivano trascurati o trattati
con sufficienza.
C’è un famoso esempio nella storia europea, che tutti abbiamo
studiato sui libri di scuola. Non so se sia effettivamente accaduto,
in ogni caso è rimasto emblematico di una estraneità e
una incomprensione totale per l’altro, il diverso, che dovremmo
evitare di ripetere. E’ quello che narra che Maria Antonietta,
austriaca regina di Francia, sentendo il rumore del tumulto del popolo
parigino, chiedesse: “Perché protestano?”. Alla risposta:
“Non hanno pane, maestà”, esclamasse. “Ebbene,
dategli delle brioches”.
C’è qualcosa di peggio, di più cinico, del complotto
imperialista dei ricchi per dominare il mondo ed affamare i poveri.
Anzi, coloro che teorizzano questo rischiano di fare la parte degli
ingenui ottimisti o delle anime belle. C’è la distratta,
candida indifferenza per il diverso, la ottusa, innocente incomprensione.
La
globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino 2002
di Joseph E. Stiglitz